Sottolineando che l’applicazione del principio di parità retributiva per lo stesso lavoro e per un lavoro di pari valore «è essenziale per conseguire la parità di genere», il Parlamento europeo raccomanda quindi l’introduzione di definizioni più precise riguardo la parità retributiva, all’analisi della situazione, alla valutazione del lavoro e alla classificazione delle professioni, all’ampliamento delle competenze degli organismi di parità, al dialogo sociale, alla prevenzione della discriminazione, all’integrazione della dimensione di genere e all’inasprimento delle sanzioni.
I comparti economici e le aziende sono invitati a valutare i loro sistemi di classificazione delle professioni, alla luce dell’obbligo di integrare la dimensione di genere e ad apportarvi le necessarie correzioni, mentre agli Stati membri è chiesto di introdurre classificazioni delle professioni che permettano «sia ai datori di lavoro che ai lavoratori di individuare eventuali discriminazioni in materia di retribuzione basate su una definizione distorta dei livelli retributivi».
Secondo l’Europarlamento sono necessari anche ulteriori controlli sui contratti collettivi, sui livelli di retribuzione applicabili e sui sistemi di classificazione professionale, soprattutto per quanto riguarda il trattamento dei lavoratori a tempo parziale e di quelli con contratti di lavoro atipici o gli straordinari/bonus. Così come sono importanti azioni specifiche in materia di formazione e classificazione delle figure professionali, rivolte al sistema scolastico e della formazione professionale, e azioni per conciliare l’attività professionale e la vita familiare nonché la flessibilità dell’organizzazione e dell’orario di lavoro. Sollecitando accordi salariali volti a combattere le discriminazioni retributive e indagini sistematiche sulla parità di trattamento salariale, i deputati europei ritengono necessario l’inserimento nella direttiva 2006/54/CE di indicazioni precise per gli Stati membri riguardo al principio della parità di trattamento in materia retributiva e per il superamento dei differenziali tra uomini e donne, prevedendo sanzioni più appropriate rispetto a quelle in vigore giudicate «insufficienti».
E a proposito di parità di trattamento tra donne e uomini, in questo caso non salariale ma previdenziale, va ricordato che il 13 novembre scorso una sentenza della Corte di Giustizia europea ha condannato l’Italia per il regime pensionistico dei dipendenti pubblici, secondo cui le donne vanno in pensione a 60 anni e gli uomini a 65. Secondo la Corte, infatti, la norma italiana (legge n. 421/92) viola «il principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore». Inoltre, alla motivazione secondo cui l’età pensionabile differente servirebbe a compensare in qualche modo le discriminazioni subite dalle donne nella vita lavorativa, la Corte risponde in modo netto: anticipare l’età pensionabile per le donne «non compensa gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici donne e non le aiuta nella loro vita professionale né pone rimedio ai problemi che possono incontrare nella loro vita professionale». La normativa italiana va dunque riformata, sentenzia la Corte di Giustizia europea, perché ha istituito «un regime professionale discriminatorio» e viola il principio generale della parità di trattamento.
fonte: http://www.europarl.europa.eu
Seguici