Confini di dignità: indignarsi è giusto

Confini di dignità: indignarsi è giusto

foto: Malèna, film di Giuseppe Tornatore (2000)

Sentirsi offese dalle parole e dai comportamenti, certe volte, si può e si deve.
Di storie come questa, ne è pieno il mondo. Storie di donne irretite in situazioni opprimenti, difficili, pressanti. Storie che esistono da sempre e che tutti conoscono. Ma non per questo bisogna smettere di raccontarle. Condividerle, esporle e pubblicarle, come foglietti illustrativi per chi soffre di un male che ancora non sa di avere: prevenire è meglio che curare. Sempre.

Come in ogni brutta storia, non immaginavo toccasse a me. Pensavo bastasse essere seri, diligenti, puntuali e precisi per farsi rispettare. Pensavo che far bene il proprio lavoro fosse una garanzia se non del posto, almeno della stima. Pensavo e adesso non lo penso più. Adesso penso che il metro con cui si giudica il valore professionale, soprattutto di una donna, sia a totale discrezione di chi la assume. Al di là del bene e del male e al di là di ogni costante stabilita.

Mi trovo, mio malgrado, affittuaria non pagante di un corpo che non passa inosservato. Mio malgrado perchè, se avessi potuto scegliere, certo non mi sarei disegnata così. Mi sarei volentieri risparmiata anni di battutine e apprezzamenti, in cui chiunque si è sentito in sacrosanto diritto e dovere di dire la sua. Tutti lì, onniscienti giudici di una questione che certo non li compete. Una perfetta democrazia goliardica, in cui vige totale libertà d’espressione. Tanto finisce tutto a risatine e smargiassate e nessuno ci perde niente. E invece no. Io per questo ci ho perso, negli anni, un bel po’ d’amor proprio, già in caduta libera.

Avete presente la scena di “Malena” in cui la splendida Monica Bellucci ancheggia morbidamente attraversando il paesino sotto gli sguardi ammaliati di una schiera di uomini? Ricordo che, ai tempi, fu una scena acclamata: lei era talmente tanto affascinante da essere irresistibile, quale  donna sensata non avrebbe voluto essere al suo posto? Giusto. Ma se si osserva con maggiore attenzione quella stessa sequenza, soffermandoci su di lei, sulle sue espressioni invece che sullo stupore che genera nel nutrito pubblico d’intenditori, si nota un malcelato malessere. Quando si sente così ‘guardata’ Malena non è affatto orgogliosa, fiera di sè stessa e del suo magnifico aspetto. Non si sente affatto una ‘strafiga’, come diremmo in gergo moderno. Anzi. Si sente scomoda, come messa in una situazione da cui è difficile uscire. Tanto è vero che inizia a coprirsi sempre di più, nel vano tentativo di mitigare l’effetto. “La suerte de una fea, una guapa la desea” dicono gli spagnoli.

Immagino benissimo le obiezioni. “Sono solo battute, occhiate, scherzi! Non fanno del male a nessuno!” Sicuri? Prendetevi la briga, per una volta, di guardare in faccia e sul serio l’oggetto delle suddette battute. Guardate se si diverte, se ne è contenta, o se si sente adulata. Osservate se vi prende in maggiore considerazione o se, al contrario, inghiottisce e basta, come si fa con qualcosa che tocca fare per forza. Perchè, insieme a donne per le quali tutto questo non rappresenta un fastidio, ce ne sono altre per cui lo è. Ci sono battute, scherzi, occhiate e osservazioni che pesano, offendono e feriscono esattamente come e quanto una mano allungata troppo.

Specie quando tutto questo si verifica sul posto di lavoro, quando è protratto nel tempo, a intervalli sempre più ravvicinati. Specie quando non c’è arma di difesa se non rispondere per le rime oppure, alla fine, andarsene per esasperazione. Perchè sentirsi offese dalle parole  e dai comportamenti si può e, certe volte, si deve. E non c’è giustificazione che tenga, siamo noi a doverci misurare con l’entità della lesione e a dover portare avanti la successiva convalescenza.

La società promuove come ‘normali’ (e quindi come ‘accettabili’ e persino ‘naturali’) determinati comportamenti:  è ‘normale’ che se indossi una gonna, secondo una chiara e logica legge umana e divina, tutti avranno da commentare le tue gambe. Che, per inciso, sono esattamente le stesse di quando ti metti i jeans o il pigiama. Solo che in tal caso sembrano non rappresentare elemento di disturbo.

Ciò chè è bollato come ‘normale’ diventa, attraverso un processo liscio e ben oliato, qualcosa che è poi comunemente accettato, condiviso, reiterato, imitato. ‘Normale’  diventa quindi,  in un pericolosissimo cambio di corsia, sinonimo di ‘giusto’. Forse è normale che tutti spoglino con gli occhi della mente la nostra Malena, ma ciò non significa che sia anche giusto. Forse è normale che il tuo capo ti tormenti con battute e apprezzamenti, ma questo non vuol dire che sia anche giusto. O che debba essere tollerato perchè è normale.

Parlare di dignità, di questi tempi, potrebbe sembrare anacronistico oppure, peggio ancora, un clichè. Non sono d’accordo. La dignità è una soglia personale, un confine che non accetta invasori. La dignità non si misura, non si quantifica, non si svende. La dignità si difende, quando chi la possiede la sente minacciata.

Mi sono sentita dire spesso che non dovevo prendermela tanto a cuore per certe cose; mi sono sentita io quella sbagliata, quella troppo ‘rigida’. Ho cercato giustificazioni e scusanti dove non c’erano, ho lasciato correre anche quando avrei voluto reagire, difendermi, indignarmi appunto. L’ho fatto e non è servito. Non sono riuscita a abituarmi, non ho cominciato a tollerare solo perchè mi si chiedeva di farlo. Forse una sorta di spirito di ribellione, addormentato con il sonnifero del comune buonsenso, ha funzionato come campanello d’allarme. Ho provato a ignorarlo, come si fa con i primi sintomi della febbre, salvo poi dovermi ricredere. A mie spese.

Non si deve tollerare, non tutto e non sempre. Non bisogna permettere di valicare quel nostro confine personale, perchè poi ricostruirlo e riappropriarsene è una dura e faticosa impresa. Indignarsi è ‘giusto’ anche quando, a volte, non indignarsi potrebbe sembrare più ‘normale’ o semplicemente più comodo.

Rita Barbieri

Laureata con lode in Lingue e Civiltà dell’Oriente antico e moderno presso l’Università degli studi di Firenze, Rita Barbieri insegna italiano agli stranieri, cinese e inglese presso varie strutture private a Firenze. Curatrice e traduttrice di alcuni testi online, ha al suo attivo la pubblicazione di articoli riguardanti la Cina classica e contemporanea su riviste come “Testimonianze” e “East: Europe and Asia strategies”. È specializzata in storia delle religioni e in filosofia orientale, oltre che un’appassionata di letteratura cinese.