Le differenze d’impiego tra i sessi permangono e non si può solo prendere in considerazione il tasso di disoccupazione totale, che tra il 2006 e il 2007 (secondo trimestre) è passato dal 4% al 3,6%, poiché la diminuzione è volta essenzialmente agli uomini (dal 3,4% al 2,9%), mentre per le donne questa percentuale rimane quasi invariata (dal 4,7% al 4,5%). Per rapporto all’età, i giovani sia donne che uomini, avvertono una chiara diminuzione della disoccupazione, mentre per le donne in attività e di gruppi di età più avanzati, la questione diventa spinosa. Per le donne disoccupate dai 40 anni in su, la situazione, tra il 2006 e il 2007, non è per nulla migliorata. Anzi, solo per il gruppo di donne di età dai 55 anni in poi, la situazione si è nettamente degradata e la disoccupazione progredisce; in rapporto allo stesso gruppo di età, la disoccupazione degli uomini è diminuita.
L’Ufficio federale di statistica ha svolto nel 2007 un’inchiesta sulla “Rilevazione sulle forze di lavoro in Svizzera” e si è interessato alle lavoratrici e ai lavoratori sotto-impiegati ma desiderosi di aumentare, nei tre mesi che seguono la rilevazione, il loro tasso di impiego. L’UFS, basandosi unicamente sul tasso complessivo, afferma che la percentuale di lavoratrici e lavoratori sotto-impiegati è rimasta stabile (6,2% della popolazione attiva) ma ignora che le ineguaglianze tra donne e uomini permangono.
Le donne, in particolare nel gruppo di età tra i 40 e 54 anni, sono 3 volte più numerose ad essere sotto-impiegate rispetto agli uomini, e il loro numero è in costante aumento dal 2005.
Continuano ad essere le donne a soffrire acerbamente di mancanza di lavoro. In paragone alla totalità della popolazione attiva, le donne sono 3 volte più numerose degli uomini a mancare di lavoro, ovvero il 15,1% rispettivamente il 5,4%. Per le donne attive, un dato doloroso è la difficoltà di conciliare “lavoro e famiglia”. Questa difficoltà è da una parte dovuta al rifiuto dei datori di lavoro di accordare alle donne una riduzione del tasso di impiego e d’altra parte alle difficoltà organizzative dovute, per fare un piccolo esempio, alla mancanza e al costo elevatissimo dei posti di asilo nido. Queste donne, che non hanno espresso fin dall’inizio l’intenzione di cessare la loro attività lucrativa, si sentono forzate, dopo la nascita del bimbo, a smettere la loro attività.
Le statistiche lo dimostrano, meno formazione porta alla disoccupazione. Il 60% dei giovani, uomini e donne, tra i 18 e i 25 anni che ricorrono all’aiuto sociale non possiede una formazione post-obbligatoria. Due terzi delle giovani donne che fanno richiesta di assistenza sociale sono non attive o disoccupate e spesso allevano i loro figli da sole: in maggioranza sono famiglie monoparentali ad essere più a rischio. E’ un cerchio vizioso: per educare i loro figli queste donne hanno ancora meno la possibilità di esercitare un’attività lucrativa. Il ricorso all’aiuto sociale cessa però immediatamente con il miglioramento della situazione professionale.
Possiamo quindi affermare che la condizione sine qua non affinché le donne trovino un lavoro e possano vivere in maniera autonoma anche in caso di figli e divorzio, è il miglioramento del loro livello di formazione. Sempre che i datori di lavoro, facendo prova di buona volontà, accordino dei tempi parziali a tutte e a tutti.
Dr. Angela M. Carlucci, Novembre 2007
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