La spirale della perfezione: «Taglia 38», l’ossessione di troppe donne

La spirale della perfezione: «Taglia 38», l’ossessione di troppe donne

Recentissima l’uscita di un brano, composto dalla rock band femminile Le Rivoltelle, che affronta  nel testo il tema dell’anoressia e dei disturbi alimentari. Il titolo, di per sé, è già una provocazione: Taglia 38 (video), l’obiettivo-ossessione di molte, troppe donne.

La canzone si ispira alla vicenda della ballerina solista Maria Francesca Garritano (in arte Mary Garrett) che, dopo aver rilasciato un’intervista all’Observer in cui parlava dei problemi alimentari legati al mondo della danza, è stata licenziata dal Teatro La Scala con la motivazione che le sue dichiarazioni avevano leso l’immagine del teatro: «il Teatro si è visto costretto a risolvere il rapporto di lavoro con la signorina Maria Francesca Garritano in seguito alle interviste e dichiarazioni pubbliche da lei rilasciate ripetutamente in un ampio arco di tempo; dichiarazioni nelle quali si è concretizzata una lesione dell’immagine del Teatro e della sua Scuola di Ballo, nonché la violazione dei doveri fondamentali che legano un dipendente al suo datore di lavoro, facendo venir meno il necessario rapporto fiduciario che è alla base di tale legame.»

Maria Francesca aveva raccontato semplicemente la sua storia e quella di molte altre sue colleghe: donne per le quali il corpo è il principale mezzo di espressione, almeno sul palco. La danza, oltre che un’arte o una passione, è una disciplina ferrea che impone ore e ore di allenamento intenso, una cura ossessiva di sé e del proprio fisico che deve arrivare quanto più vicino possibile, in un infinito e perverso asintoto, alla perfezione.

Ho studiato danza anch’io per un periodo e, se c’è una cosa che ricordo bene, è la frustrazione vulnerabile del non essere perfetta. In mezzo a quegli enormi stanzoni completamente disseminati di specchi che riflettono e proiettano ovunque immagini e pezzi di te, con indosso nient’altro che un misero body pensato appositamente per rivelare il più possibile centimetri di muscoli, fibre, pelle. Vicino a altre ragazze costituzionalmente più adatte, a un’insegnante votata alla danza letteralmente anima e corpo. Ballare con movimenti innaturali, perfino dolorosi a volte, sotto gli occhi esigenti di maestre e colleghe che da te si aspettano sempre il massimo e anche di più.

Fintanto che gli occhi più esigenti, alla fine, diventano i tuoi. Giudici severi e assolutamente parziali, sono lì per registrare ogni fallimento,  imperfezione,  mancanza. In questo, ancora, non c’è nulla di patologico ma il passaggio può essere davvero molto breve.

Sogno la perfezione
le mie ossa un manifesto
il mio corpo un’ossessione
questo mondo mi sta stretto
come quel vestito addosso
devo essere perfetta
perfezione maledetta

Così recita il testo della canzone, mentre la protagonista del video si scruta e si misura di fronte allo specchio. E  dentro lo specchio, anche se non ce ne accorgiamo, c’è tutto un coro di voci che urla.

Sono le voci dei nostri echi passati: gli scherzi da bambini, le battute poco divertenti degli amici, le critiche affilate dei fidanzati e dei datori di lavoro, i commenti poco gentili dei passanti per strada. Tutte voci che ci sembra di non udire, ma che ci entrano in testa come una musica orecchiabile che torniamo a canticchiare quasi inavvertitamente.

E in più ci sono le immagini: corpi magnifici, scultorei, mozzafiato. Pelli che non rivelano nessun segno: né dell’età, né della stanchezza, né di nessun tipo di espressione. A volte mi sono chiesta come facciano certe attrici, modelle e anche ragazze comuni a sorridere senza che si formino segni… Sarò strana io ma a me, quando sorrido, il viso cambia completamente e diventa una cartina fatta di fossette, rughe agli angoli degli occhi e delle labbra e, per di più,  mi si notano tutte quante… Sempre in tema di stranezza: io quando sono stanca, ho le occhiaie come i panda, la pelle spenta e la faccia tesa. E mi chiedo perché mai dovrei vergognarmene o nasconderlo. Sono un essere umano qualunque:  mi emoziono, piango, rido, mi stanco, mi arrabbio e mi indigno. E tutta questa umanità mi si disegna sul viso come  un quadro che tutti possono osservare e, eventualmente, interpretare.

Se analizziamo il linguaggio pubblicitario dei prodotti di bellezza restiamo colpiti da quanto spesso troviamo parole come ‘nascondere’, ‘coprire’, ‘mascherare’ e addirittura ‘eliminare’ o ‘cancellare’. Termini che, di fatto, rimandano linguisticamente a concetti come magagne, errori, sbagli da correggere e colpe da emendare.

Colpe. Da quando la stanchezza, la gioia, la fatica, l’età sono colpe socialmente perseguibili? Da quando e perché devo coprire, mascherare, correggere ciò che non è sbagliato ma semplicemente umano e normale?

Pochi giorni fa, in uno di quei giorni che definire ‘non certo dei migliori’ risulta un vano tentativo di sdrammatizzare, il barista da cui prendo il caffè ogni tanto ha disegnato con la cioccolata un cuore sul mio solito macchiato. «Si vede signorina che è triste oggi…» Ho ringraziato: il mio stato d’animo era evidente persino a un perfetto sconosciuto. Probabilmente dovrei cambiare correttore. O forse stato d’animo, ma per quello un caffè non basta, anche se aiuta…

In un sorprendente studio degli anni ’30 Kracauer osserva che : «la corsa ai numerosi istituti di bellezza è anche determinata da una preoccupazione per la propria esistenza, l’uso dei cosmetici non è sempre un lusso. Per la paura di essere dichiarati fuori uso come merce invecchiata le signore e i signori si tingono i capelli, e i quarantenni praticano lo sport per mantenersi snelli. Come devo fare per diventare bello?»

Siamo ormai abituati a sentirci consumatori, più o meno critici, di una globale società di consumo; siamo abituati anche a sentirci target di un meccanismo di marketing sempre più pervasivo che innesta  volutamente (o, a seconda dei casi, esaspera) un senso di colpa, di inferiorità per spingerci a comprare sempre di più, dando il nostro contributo al proliferare di mercati e giri di affari che coinvolgono settori come quello della cosmesi, della moda, della chirurgia.

Ma quali conseguenze ha tutto questo nel nostro quotidiano? Almeno una: il senso di disagio. L’idea di avere delle lacune, delle mancanze che possono essere colmate a suon di diete, palestre, trattamenti, cosmetici e affini. Questo può portare da un lato a un processo costruttivo di miglioramento di sé, dall’altro però, nel peggiore dei casi, anche a un processo distruttivo:  la pericolosa spirale della perfezione, un labirinto di specchi nel quale perdersi è fin troppo facile.

«Devo essere perfetta. Perfezione maledetta.» La perfezione non esiste, verrebbe da dire. In realtà la perfezione esiste in quanto perfetta strategia di mercato che ci vede non solo consumatori (acritici) ma anche merce: un prodotto che deve essere il più possibile capace di acquisire clientela e creare domanda, sfruttando competitività e concorrenza. Di tutto questo, troppo spesso, ne siamo passivamente inconsapevoli. E, alcune volte, vittime.

Servono nuovi occhi per guardarsi allo specchio: occhi che non siano solo giudici pronti a condannare,  metri con cui misurare, magazzini e depositi di immagini preconfezionate ad arte. Servono occhi  vigili e allo stesso tempo benevoli. Per essere belle non bisogna soffrire. E non bisogna soffrire per essere belle.

 

Rita Barbieri

 

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